Fabrizio Rebolia
Lo scopo del presente lavoro è quello di presentare una breve rassegna di come lo yachting possa essere considerato a pieno titolo una forma d’arte e come questa si sia evoluta nel tempo, dalle origini ai giorni nostri.
- Anzitutto occorre mettersi d’accordo su cos’è arte e su che cosa non lo è, ovvero sul concetto di bellezza:
per il nostro scopo possiamo rifarci alla definizione di “opera d’arte” secondo la CONCEZIONE CLASSICA DEL WINCKELMANN “La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata.” ,
ovvero secondo la CONCEZIONE DINAMICA DEL MARINETTI “noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…. un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.” .
Ecco, se noi osserviamo il design degli yacht in base a queste due prospettive: una classico-formale ed una dinamico-funzionale ci accorgiamo che entrambe sono state continuativamente presenti dalle origini ai nostri giorni e soprattutto che ambedue continuano a generare dibattiti ed a fare proseliti tra gli appassionati di nautica e gli operatori del settore.
- RASSEGNA FOTOGRAFICA SUDDIVISA PER EPOCHE E SECONDO LE DUE DIRETTRICI (CLASSICA E DINAMICA)
- lo yacht come svago per ricchi esteti, l’epoca d’oro degli yachtmen
- la nautica del dopoguerra, l’ascesa del diporto
- il design industriale si affaccia nella nautica, l’ingresso della VTR e il progressivo abbandono del legno
- l’avvento dei super yacht
- le nuove tendenze
- L’ARTE NEI PARTICOLARI
Come abbiamo visto, ci sono esempi importanti di “arte” o se preferite di “bellezza” sia nella declinazione classico-formale che in quella dinamico-funzionale, e soprattutto che ogni differente epoca dello yachting, ha avuto le sue eccellenze sia in una declinazione che nell’altra e soprattutto questa diarchia continua immutata ancor oggi, nella ricerca del “bello e ben fatto” ossia, del kalòs kai agathòs degli antichi greci ( καλὸς καὶ ἀγαθός ).
Fabrizio Rebolia – SYMBOL YACHTING
mediatore marittimo – yacht broker
Parlare di gentleman’s yachts (letteralmente: barche da gentiluomini) significa andare a (ri)cercare quel sottile filo rosso che lega lo yachting a motore con l’arte navale.
Infatti se alcuni velisti amano dire sprezzantemente che i ricchi vanno a motore, mentre i signori vanno a vela, sbagliano, in quanto non tengono conto di questo mondo, che è il ritrovo ovattato di tutti quegli appassionati che per lignaggio, educazione, gusto, cultura artistica e marinaresca, potrebbero benissimo comprendere l’incanto di un J-Class ma che, per scelta, decidono di affidare le proprie navigazioni ad una coppia di motori …
Quali sono le caratteristiche che “deve” avere uno yacht a motore per essere classificato come gentleman’s yacht? Nessuna!
L’arte, si sa, rifugge da qualsiasi obbligo, classificazione o imposizione.
Ciò nondimeno possiamo individuare alcune caratteristiche ricorrenti dei gentleman’s yachts pur avendo ben presenti le debite eccezioni.
Anzitutto “chi” è il tipico armatore di gentleman’s yacht?
Possiamo dire che è una persona che ha cultura marinaresca o, se si preferisce, che ama il mare, una persona insomma che ama navigare con la propria barca, più che tenerla malinconicamente ormeggiata.
Questo immediatamente significa lunghe navigazioni e soprattutto navigazioni confortevoli, quindi carene dislocanti o quantomeno plananti ma mai senza raggiungere certi eccessi velocistici difficilmente sopportabili dall’armatore e soprattutto dagli ospiti a bordo, quindi niente “missili”.
Il nostro armatore-tipo spesso è un collezionista d’arte (addirittura è frequente che qui la collezione appartenga “da sempre” alla famiglia, quindi la bellezza e l’abitudine ad essa son date per scontate) pertanto amerà ritrovare a bordo la boiserie e i materiali nobili della tradizione marinara che mai si sognerebbe di mettere in discussione (legno, ottone, acciaio, cuoio, rattan, lino, cotone).
Anche qui la scelta ricadrà preferibilmente su interni schiettamente marinari, pur non disdegnando le declinazioni dell’art-déco: quindi niente perspex o carbonio, qui le atmosfere son più da “Grande Gatsby” che da “Guerre Stellari”.
Abbiamo parlato già di comfort di navigazione, riprendiamo il discorso e parliamo di motori: qui si preferiscono di gran lunga le navigazioni piacevolmente contemplative alle scorribande a velocità supersoniche, quindi la scelta dei motori ricadrà obbligatoriamente su dei Diesel per la loro sicurezza ed economicità d’esercizio alle andature di crociera.
Addirittura c’è chi in questo tipo di motoryacht ritiene assolutamente insuperabili i sonnacchiosi e proverbialmente economi Gardner (una coppia di Gardner su un 27mt è capace di “accontentarsi” di 30lt/h complessivi, ad un’andatura di 9kn).
Parliamo poi di colori: ammessi tutti, fuorchè quelli squillanti e al di fuori della tradizione marinara, sì (ovviamente) al bianco e al blu marino, qualche concessione al nero (mai opaco mi raccomando) e anche al verde petrolio o al beige.
I gentleman’s yachts vengono al più dipinti di bianco, preferendolo al blu marino (che peraltro è splendido) poiché chi naviga veramente sa quanto possa essere insopportabile vivere in uno scafo nero sotto il sole d’agosto della Sardegna … quando il bianco perde almeno 3° di temperatura. Si potrà obiettare che esiste l’aria condizionata, ma chi lo fa, difficilmente ha provato il brivido di rientrare a bordo dopo un bagno di ferragosto, quando in cabina ci sono 22° (roba da polmonite garantita) quindi sì al bianco ed alle maniche a vento, no al nero, alle superfici vetrate colossali ed all’aria condizionata.
Dimensioni? Posto che non esistono regole, diciamo che tutto dipende da quanti ospiti solitamente l’armatore ama ricevere a bordo e da quante persone d’equipaggio si ritengon necessarie (ammesso che ci si voglia avvalere del marinaio o di altro personale).
Sicuramente il gentleman rifugge da cabine anguste e sovraffollate (lasciandole volentieri alle barche a vela dei francesi) e allo stesso modo aborrisce certi grotteschi “salsiccioni” e “grattacieli del mare”, quindi barche eleganti ed eleganza vuol dire, questa sì che è una regola aurea, senso delle proporzioni e soprattutto cultura marinaresca.
Se avete dubbi in proposito, provate l’ebbrezza di navigare col vento al traverso con un tre-ponti di 25 mt!
Cantieri? Quando non fa parte “da sempre” dei gioielli di famiglia, lo yacht viene fatto costruire da un cantiere “serio”, di provato nome, esperienza e qualità, poiché nel mondo dorato di “coloro che i mobili per la casa non li acquistano ma li ereditano” (la frase è della serie TV Downton Abbey) i nomi dei cantieri di fiducia vengono sussurrati e si passano gelosamente “da pari a pari”, i Paesi di costruzione son sempre quelli di più grande tradizione marinara (Olanda, Gran Bretagna, Italia e Germania) e spesso il cantiere (nel caso di barca nuova) e scelto dal progettista di fiducia e da questo controllato personalmente.
E’ quindi chiaro che ci sono progettisti e cantieri ricorrenti, anche se vi sono le eccezioni.
Qualche nome?
Tra i progettisti abbiamo Sciarrelli, Anselmi Boretti, Luca Dini, Sparkman & Stephen, così per citare solo i più noti.
Nei cantieri i nomi più ricorrenti sono De Vries Lentsch, Camper & Nicholson, Feadship, Abeking & Rasmussen, Benetti, Benetti Sail Division, Codecasa, CRN, Baglietto, Cantieri di Pisa, Picchiotti, Spertini, Cantieri Tigullio, Cantieri Liguri, Camuffo.
Insomma … il gotha dell’eleganza sull’acqua.
Concludendo, come riconoscere a prima vista un gentleman’s yacht?
E’ quella barca che attira subito la nostra attenzione, non perché è la più veloce, né le più grande, né le più costosa, né le più moderna, però è quella barca che ci fa spalancare la bocca per la meraviglia, e socchiudendo gli occhi ci rimanda a quei tempi in cui lo yachting non era “roba” per gente ricca, ma la autentica passione dei signori, a quel punto, ecco … se quella barca ci sa comunicare quest’emozione … ecco, ci troviamo di fronte a un gentleman’s yacht_
Fabrizio Rebolia
PREMESSA
Le barche sono da sempre un mezzo di trasporto per persone o cose, e le barche veloci sono da sempre anche un eccellente mezzo di fuga. Parlare di barche veloci significa quindi anche parlare di inseguimenti tra contrabbandieri e forze destinate al contrabbando: ad ogni vantaggio acquisito da una parte s’è subito contrapposto il superamento di detto vantaggio dall’altra, spingendo l’evoluzione tecnologica verso motoscafi sempre più veloci, maneggevoli, performanti, in una parola sempre più efficienti.
Questo breve articolo ha lo scopo di tracciare qualche profilo di questo eterno inseguimento tra “guardie e ladri”.
IL PROIBIZIONISMO
E’ negli anni del proibizionismo che per la I volta i motoscafi veloci vengono utilizzati per il contrabbando, nella fattispecie di alcoolici, da cui deriva il loro soprannome di allora rum runners. I rum runners più profilati e veloci furono poi soprannominati cigarette dalla loro forma affusolata a sigaretta. Questo nome, come vedremo in seguito, acquisterà una notevole importanza nella storia della motonautica e anche nella motonautica del contrabbando.
GLI SCAFI BLU
Cambiamo scenario e passiamo dal proibizionismo dell’America degli anni ’30 alla Napoli degli anni ’50 e ’60, dove tutte le sere gli scafi blu (dal nome della loro colorazione per sfuggire agli avvistamenti) dei contrabbandieri si muovevano da Napoli fino a 20 – 30 miglia da Capri, andando a intercettare le navi cariche di sigarette per portare a terra il prezioso carico di contrabbando.
I contrabbandieri seguivano i “fari di via”, affiancavano le navi con la barca, alzavano un’asta di 6 – 7 metri che terminava con un uncino dalla quale salivano a forza di braccia a bordo. Operazione pericolosa perché se non ce la facevi, il rischio era quello di cadere e finire direttamente sulle eliche della nave perennemente in movimento.
L’attività era così fiorente che questi motoscafi, noti come scafi blu o squali erano famosi anche col nome di Napoli, per la loro provenienza. I Napoli erano scafi costruiti in compensato di mogano con il classico parabrezza a V e motorizzati con 2 Mercruiser, venivano appunto costruiti da abilissimi maestri d’ascia nei cantieri napoletani come Pezzella e Molimar. La colorazione in blu era data per evitare riflessi di luce che potessero far scoprire lo scafo in lontananza.
Il centro del contrabbando napoletano era il Borgo Marinari, ubicato a ridosso del Castel dell’Ovo, unito alla terraferma attraverso un istmo artificiale che si collega al Borgo Santa Lucia.
La Guardia di Finanza italiana aveva nei meravigliosi Italcraft – Drago il principale mezzo di contrasto agli scafi blu. Il Drago era un motoscafo progettato da Renato “Sonny” Levi per Italcraft ed era l’incubo dei contrabbandieri; motovedetta velocissima, per il proprio profilo con la prua discendente venne soprannominato da questi o pappavallo (il pappagallo).
MIAMI VICE
Tra gli anni ’70 ed ’80 la merce trasportata di contrabbando e le rotte utilizzate cambiano: si passa dal Rum del proibizionismo americano, alle sigarette della Napoli del dopoguerra alle rotte della cocaina dei narcos colombiani che fanno arrivare la droga attraverso il Mar dei Caraibi verso la Florida su velocissimi motoscafi direttamente derivati dalle competizioni offshore.
Alla US Custom (la guardia di finanza americana) non rimane quindi che andare dal costruttore delle più veloci barche di allora, Don Aronow, che coi suoi Cigarette (in onore delle barche del proibizionismo) raccoglieva vittorie su vittorie nelle competizioni di motonautica d’altura, convincendolo a fornire i suoi motoscafi alla US Custom. Leggendari furono gli incontri su tale argomento tra Don Aronow e il Presidente degli Stati Uniti George Bush senior.
Questi inseguimenti sul filo dei 50 nodi avvenivano con qualsiasi mare e qualsiasi tempo, e i narcos preferivano le barche con bassissimo profilo, per essere invisibili ai radar e con ridotta immersione, per i bassi fondali delle acque caraibiche. Addirittura la Wellcraft arrivò a pubblicizzare le doti del proprio Scarab con la frase “l’unico modo per fermare questo motoscafo è vederlo alla TV”.
LA ROTTA ALBANESE
Nello stesso periodo, nel Mediterraneo, il traffico di contrabbando di sigarette si trasferisce dalle acque del Golfo di Napoli a quelle meno battute della Puglia, dove prospera il contrabbando con l’Albania.
Qui si assiste all’escalation del valore della merce trasportata (dalle sigarette, ai clandestini, alla droga) e di conseguenza a quello delle velocità degli inseguimenti e della violenza degli ingaggi e dei conseguenti scontri.
Anche le barche cambiano e abbiamo l’ascesa di tre nomi che diverranno mitici: Supertermoli, Corbelli e Buzzi.
Il Supertermoli era il tipico scafo utilizzato dai contrabbandieri, battezzato così perché era la versione potenziata del Termoli, costruito in un cantiere navale a Termoli; era un “mostro” da 18 mt con 4 motori Seatek diesel da 750hp ciascuno, propulsione Trimax per una velocità di 65 nodi, velocità che era tenuta anche di notte!
I Corbelli eran gli scafi della Guardia di Finanza (ma a volte coi Supertermoli le posizioni si invertivano) ed eran costruiti in un cantiere navale a Massa Carrara dall’ingegnere Giancarlo Corbelli; avevano 4 motori Mercruiser da 480hp, sistema di propulsione Bravo One ed eliche Rolla, per una velocità a pieno carico di 50 nodi circa.
L’unico modo per fermare gli scafi dei contrabbandieri, che avevano a loro vantaggio la velocità o la maneggevolezza o entrambe, era quello di intrappolare le eliche con i cavi usati per le reti a strascico con l’anima di acciaio: non bastava che li prendessero nelle eliche, dovevi obbligarli a correre per un bel po’ di tempo con quella cima nelle eliche per far sì che gli invertitori andassero in avaria. I cavi venivano filati affiancando a prua ed al mascone le barca dei contrabbandieri, accostando rapidamente e scartando, al fine di farli finire nelle eliche della barca fuorilegge.
Era una lotta pericolosa e terribile, sia per la velocità raggiunta con qualsiasi mare, che per le caratteristiche delle barche dei contrabbandieri, una volta che ebbero a disposizione gli ultimi Corbelli da 70 nodi, con prua rinforzata in acciaio per speronare le barche della Guardia di Finanza, e 2 motori da 1.000hp e in grado di attraversare 2 – 3 volte a notte l’Adriatico dalla Puglia a Bar in Montenegro (dove si era nel frattempo stabilita la base operativa dei criminali).
Le cose poi migliorarono decisamente per la Guardia di Finanza italiana con l’arrivo dei V 6.000 Classe Levriero, con 4 motori Seatek da 750hp, propulsione Trimax, per una velocità di 75 nodi.
Progettati dall’ingegner Fabio Buzzi, recentemente scomparso, e costruiti da Intermarine di Sarzana dal 2001, questi mezzi formidabili hanno anche 20 nodi più di quelli dei trafficanti, dovendo addirittura decelerare per non superarli in maniera troppo larga (le accostate van sempre fatte molto strette per chiudere la barca che si vuol fermare).
I PICUDA DEI NARCOS
L’ultima frontiera in fatto di motoscafi utilizzati dai narcos colombiani contro la DEA americana, sono i Picuda Boats, così chiamati perché la loro forma richiama quella dell’omonimo pesce tropicale.
Sono scafi costruiti in fibra di vetro e con forma spigolosa al fine di accentuare le loro qualità stealth e risultare così invisibili ai radar.
FABRIZIO REBOLIA
INTRODUZIONE:
Alla fine degli anni ’70 il cantiere Offshorer aprì una nuova era nelle imbarcazioni sportive di lusso, arrivando col suo Monte Carlo ad essere universalmente identificato come l’erede del mitico Riva Aquarama.
L’intuizione di questo prodotto venne direttamente da Carlo Riva che, venduto il marchio omonimo, decise di costruire un motoscafo capace di eguagliare l’Aquarama Special in termini di qualità costruttiva e charme, ma con una maggior maneggevolezza e migliori prestazioni in genere.
I 3 GENI
Bob Hobbs era un architetto navale col pallino della matematica che lavorava negli anni ’70 per il Centro Ricerche dell’US Navy ov’era noto per l’applicazione delle equazioni a sistemi complessi alla forma delle carene.
Durante uno stage presso l’US Navy, Hobbs incontrò Cal Connel, il creatore dei motori marini Crusader che Riva impiegava abitualmente sui suoi runabout, e questi si interessò subito ai lavori di Hobbs ed alle loro applicazioni.
Il lavoro di Hobbs che attrasse maggiormente l’attenzione di Connel era una carena per motoscafi plananti di concezione completamente nuova: una carena a “V” profonda con 2 gradini, ma il prototipo denominato Tridyne era stato realizzato frettolosamente e maldestramente.
Connel comunque ne mise a parte l’ingegner Riva e questi seppe riconoscere immediatamente “il genio” in questa creazione e decise di svilupparla … così nacque la mitica carena del Monte Carlo.
LA PRODUZIONE
Per tradurre un prototipo rivoluzionario (peraltro mal realizzato) nel “motoscafo che tutti volevano avere” ci voleva metodo e qualità. Determinante fu quindi la supervisione dell’ingegner Riva e di tutta la sua squadra per il controllo della produzione e della qualità costruttiva che fu, come doveva logicamente essere per uno scafo “made in Riva”, elevatissima.
Tra il 1973 e il 1976 la squadra di Carlo Riva lavorò nell’ombra, arrivando infine al prototipo del Monte Carlo Offshore 28, alla cui produzione fu dedicato un nuovo stabilimento dal promettente nome di “Mare e Sole” strategicamente posto a Bevera di Ventimiglia, a pochi passi dal confine francese e dalla Costa Azzurra, che costituiva inizialmente una divisione del Boat Center della famiglia Riva.
Nel 1977 il cantiere divenne Offshorer Marine sotto la direzione di Patrizio Ferrarese e il 28′ fu portato a 30′.
Successivamente il cantiere fu poi acquisito dai due campioni di motonautica Gianfranco Rossi e Renato Della Valle che che svilupparono ulteriormente il progetto e il 30′ divenne 32′.
LA TECNICA
Lo scafo del Monte Carlo Superfast Offshore 27 (poi semplicemente Monte Carlo) era costruito in vetroresina rinforzata con fibra di carbonio con una carena a redan (gradini) per migliorarne la stabilità. I motori erano montati in posizione centrale, in modo da abbassare il centro di gravità dell’imbarcazione, contribuendo così a incrementarne la maneggevolezza.
Cal Connel progettò il sistema di trasmissione e Bob Hobbs si occupò della struttura dello scafo. Motori e raccordi erano gli stessi montati sui Riva di quegli anni.
Ovviamente la produzione era molto curata e, a parte una piccola fetta della produzione dotata dei turbodiesel Mercruiser, la maggior parte degli Offshorer Monte Carlo era allestita con una coppia di V8 Crusader, una motorizzazione esuberante che garantiva prestazioni di tutto rispetto (il modello poteva agevolmente superare i 50 nodi in configurazione standard).
Interessante e degna di nota è la trasmissione in linea d’asse con i timoni dietro le eliche, soluzione che assicura un’eccezionale sicurezza, ben superiore alla maggior parte degli scafi della stessa categoria che invece adottavano i piedi poppieri.
Anche le caratteristiche nautiche erano di valore assoluto: la carena a “V” profonda con pattini longitudinali si presentava con due step (redan) la cui funzione principale era quella di agevolare la planata e creare una turbolenza che creava un cuscino d’aria con funzione aerodinamica di sostentamento dello scafo.
I risultati furono evidenti: planata immediata, assetto perfetto in ogni condizione di carico, aumento della velocità e contemporanea diminuzione dei consumi, portando a un comportamento dinamico complessivo senza pari nella categoria.
Il Monte Carlo fu in produzione sino ai primi anni ’90 e prese idealmente il posto dell’Aquarama Special sia nell’utilizzo classico che in quello come tender per maxi yacht._
Fabrizio Rebolia
Herbert von Karajan (1908), all’anagrafe Heribert Ritter von Karajan, è generalmente considerato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi, è ricordato come il direttore con il maggior numero di incisioni discografiche, in particolare con i Berliner Philarmoniker, che ha guidato per trentacinque anni, sino al 1989, anno della sua morte.
Personaggio del jet set internazionale, direttore osannato e uomo discusso, famoso per le sue sciate e la guida spericolata, per le automobili sportive, per il jet executive che pilotava personalmente, per il suo carisma e per le tre ville (ad Anif, a St Moritz ed a St Tropez), per la sua passione per le belle donne e … per quella per le barche a vela!
Karajan imparò a veleggiare sui laghi austriaci sin da piccolo e nel 1938 acquistò il suo primo yacht, il “Karajanides”.
Nel 1967 acquistò il primo della fortunata serie degli Helisara (6 yachts), il cui nome era l’acronimo di (H)erbert, (El)iette, (Is)abel, (Ara)bel, ossia del suo nome di battesimo, seguito da quello della moglie e delle due figlie.
La prima “Helisara” fu uno yacht di 11mt (37ft) disegnato dall’architetto americano Dick Carter per la “One Ton Cup” del 1966 e fu acquistata da HvK nel 1967. Di base a St Tropez, gareggiò dal 1968 al 1974, vincendo alla “Giraglia” ed alla “Settimana di Marsiglia”.
Le barche della serie Helisara furono infine sei, passando dagli “Swan” dei Cantieri Nautor, per un C & C Custom 61 realizzato dalla C & C Yachts di Oakville, Ontario, Canada e arrivando infine all’ultima “Helisara VI”: un maxi di 24 metri a bordo del quale Karajan vinse numerose regate.
Dell’Herbert von Karajan velista ci piace ricordare la sua inesauribile passione per il mare e lo sport della vela: sempre teso alla ricerca della perfezione ed a tirar fuori il meglio di se’, della barca e di tutto l’equipaggio.
Ricordiamo infine che a bordo, tra le scotte e le drizze degli Helisara era facile incontrare personaggi del calibro di Gianni Agnelli, di Raoul Gardini o di Brigitte Bardot, insomma la commistione tra sport e jet set, tra carisma e bella vita: la sintesi del mondo che frequentava von Karajan quando non dirigeva i Philarmoniker_
Fabrizio Rebolia
UN AMERICANO A VARAZZE
Il cantiere Baglietto da sempre annovera tra i propri clienti principi e magnati, è per la motonautica ciò che la Ferrari è per l’automobilismo: il mito nato dalle regate e dalle corse, l’oggetto per cui i potenti di tutto il mondo son disposti a mettersi in fila ad aspettare e per essere ricevuti in cantiere.
Ebbene, tra questi clienti ve n’è stato uno che più di ogni altro ha incarnato e impersonato lo spirito Baglietto: ovvero ottenere le massime prestazioni possibili con un’eleganza e uno stile senza pari (e sempre Ferrari torna alla mente): un austriaco emigrato in gioventù negli Stati Uniti, con la passione per le corse in automobile e le belle donne e che era diventato ricco vendendo negli USA le automobili tedesche (Volkswagen e Porsche), il barone John von Neumann.
Von Neumann che passava le proprie vacanze in Italia, si appassionò da subito ai motoryacht prodotti da Baglietto e amava dire agli amici che “una barca non è una casa, ma un mezzo in movimento, che deve spostarsi velocemente” e questa sua filosofia caratterizzerà tutte le barche da lui fatte costruire appositamente a Varazze: le più veloci di tutte.
La prima barca che von Neumann acquistò dal cantiere fu un Ischia, seguito da un 16.50 dal nome ignoto.
All’inizio degli anni ’70 von Neumann ordinò due barche con una struttura disegnata appositamente: Geronimo (JVN4) 16,50 mt, e Cochise (JVN5) 20mt che fu esposta al Salone Nautico di Genova dalla sovrastruttura asimmetrica.
Nel ’78 arrivò Tazah (JVN7) 23mt, che aveva la caratteristica particolare di unire lo scafo in alluminio alla sovrastruttura in legno.
Poi tra l’83 e l’85 ecco Nachite e Blackhawk, interamente in alluminio.
Infine, nel 1986, la più bella e veloce di tutte: Chato. Una barca bellissima di 26mt per 60 tons, realizzata in alluminio su carena dell’ingegner Alcide Sculati (il genio che concepì Destriero) con 2 motori MTU 16V 396 TB94 da 3480 cv ciascuno, accoppiati ad idrogetti KaMeWa che sono in grado di portarlo alla pazzesca velocità massima di 60kts, che ne fa ancora oggi uno dei 10 super yacht più veloci al mondo, dopo 30 anni dal suo varo_
Fabrizio Rebolia
IL CAMPO DI REGATA è particolarissimo: il Lago di Garda, il maggior lago italiano ed uno dei più estesi laghi alpini, dalla duplice natura – fiordo norvegese sopra a Gargnano e golfo marino al di sotto, spazzato nella sua parte nordica (quella che arriva sino a Torbole e Riva) da venti mitici che vengono canalizzati in un effetto-Venturi dall’imbuto delle montagne: l’Ora e il Pèler.
LA REGATA è una delle più famose al mondo e la più lunga che si corra in acque interne in Europa, c’è chi ha paragonato la Centomiglia per l’aura che la circonda, ad una tappa dell’Admiral’s o a una finale di Coppa America. Sicuramente ci sono progettisti di tutto il mondo (Bruce Farr su tutti) che han disegnato, fatto costruire e trasportato qui da ogni angolo del globo le loro barche unicamente per vincere la Centomiglia.
IL PERCORSO è una salita e discesa di tutto il Lago di Garda: la partenza è al porticciolo di Bogliaco di Gargnano, sulla sponda bresciana, poi si sale passando dalla boa di Limone sino al giro di boa a Torbole in cima al lago, in Trentino, poi discesa a rotta di collo sino alla boa in basso, a Desenzano e risalita e arrivo a Gargnano.
I CLASSE LIBERA sono le barche fuori-serie costruite espressamente per vincere questa regata: macchine volanti pazzesche, dai dislocamenti superleggeri e impossibili da domare senza ricorrere alle acrobazie dei trapezi. Vediamo le più rappresentative:
CASSIOPEA, progetto in legno lamellare a strati incrociati, che vincerà ben 4 edizioni.
GRIFO e FARRNETICANTE, due progetti del neozelandese Bruce Farr che introdurrà con loro i dislocamenti superleggeri (dislocamento intorno ai 2.000 kg), le terrazze e infine i trapezi.
Nel 1999 lo scomparso Giorgio Zuccoli porterà DIMORE DEL GARDA a stabilire il record della regata in 6h e 05 min (record dei monoscafi tuttora imbattuto).
Dopo arrivano i tedeschi con PRINCIPESSA (vincitrice per ben 5 volte di cui 3 consecutive) e l’incredibile CLAN DES TEAM che verrà successivamente ribattezzata CLAN GROK.
UN CONSIGLIO PER GLI APPASSIONATI: se amate la vela e non avete mai visto una Centomiglia, correte a vederla ogni I settimana di settembre; i punti di osservazione migliori sono senz’altro la Rocca di Manerba (nella parte bassa del lago) o il Belvedere di Tremosine (nella parte alta): sono entrambi posti d’osservazione pazzeschi che però bisogna guadagnare con una levataccia di primo mattino, per non rischiare di finire in ultima fila_
Fabrizio Rebolia
L’UOMO DEI SUPERYACHTS PIU’ VELOCI DEL MONDO
John Staluppi è nato a Brooklyn – New York nel 1947 ed ha iniziato a lavorare come meccanico presso l’officina di una pompa di benzina, successivamente s’è messo in proprio ed ha avuto il colpo di genio di importare per primo le minuscole autovetture di uno sconosciuto costruttore giapponese: Soichiro Honda: inutile dire che da quella incredibile intuizione gli affari han preso a marciare a gonfie vele e ad assicurare a John Staluppi il successo.
Il successo negli affari ha portato con se’ la possibilità di acquistare dei bellissimi e costosissimi giocattoli da adulti, come le auto d’epoca (di cui Staluppi è uno dei più grandi collezionisti al mondo) e i motoryacht, e qui inizia il nostro viaggio.
LA VERSIONE STALUPPI – LA PIU’ VELOCE
Il motivo per cui analizziamo le barche possedute da Staluppi è dovuto al fatto che lui ha sempre desiderato andare sul mare con i motoryacht più veloci; questa ricerca della velocità lo spinse negli anni a realizzare barche capaci di stabilire dei record mondiali.
Inizialmente Staluppi si accontentava di prendere un modello preesistente di un cantiere e farlo modificare secondo le sue specifiche; alcune barche furono invece acquistate sul mercato di seconda mano e refittate in modo radicale con motorizzazioni iperboliche.
Successivamente Staluppi decise addirittura di costruire da se’ i mostri con cui sfidare re e tycoon nella gara per la barca più veloce di tutte: con la Millennium Superyachts, un cantiere che aveva per unico scopo quello di costruire le barche più belle, veloci e lussuose del mondo.
Oggi l’obiettivo di Millennium Superyachts non è più principalmente la velocità da primato, ma soprattutto il lusso, e gli ultimi modelli ideati da Staluppi esulando dallo scopo di questa trattazione, verranno comunque qui poi citati, seppure in modo solo sintetico.
FOR YOUR EYES ONLY
Il primo motoryacht che John Staluppi concepì espressamente per la velocità fu il 36mt “For your eyes only”, che fu varata nel 1985 dal cantiere Denison Marine.
Era uno scafo semidislocante e fu il primo motoryacht americano a combinare i motori MTU con la propulsione a idrogetto, e questo gli permise di raggiungere la velocità di 30 nodi.
OCTOPUSSY
“Octopussy” fu la seconda barca espressamente realizzata secondo i desiderata di Staluppi, questa volta dal cantiere Heesen.
Si narra che tra le specifiche contrattuali vi fosse una clausola di rescissione nel caso in cui la barca non avesse superato i 50kn, d’altra parte era previsto che per ogni nodo in più oltre questo limite, il cantiere avrebbe percepito un bonus di $200,000 per nodo.
“Octopussy” coi suoi 44mt e con una velocità di punta di 53 nodi (!) fu al suo varo nel 1988 lo yacht più veloce del mondo.
MOONRAKER
Alla fine degli anni ’80, in risposta a Octopussy, lo scettro della barca più veloce del mondo passò a Sua Maestà l’Aga Kahn che fece varare una barca capace di 57kn, e Staluppi prontamente rispose ordinando al cantiere Norship il 36mt “Moonraker”.
La barca fu varata nel 1992 e arrivò ad una velocità di punta di 61 nodi (!).
THE WORLD IS NOT ENOUGH
Nel 1998 Staluppi decise di scendere personalmente in campo creando un proprio cantiere: non più barche semplicemente modificate, refittate e ipermotorizzate secondo i dettami della “religione Staluppi: velocità, velocità, velocità ad ogni costo”, ma addirittura un cantiere espressamente creato per realizzare il più veloce superyacht al mondo e nacque così in Olanda la Neptunus – Millennium Superyachts, ancor oggi protagonista della scena mondiale dello yachting.
La prima barca uscita dalla Millennium fu nel 2004 “The world is not enough” che riprendeva la predilezione di Staluppi per i nomi alla “James Bond”: un superyacht di 40mt che poteva arrivare ad essere motorizzato (nella versione personale di John Staluppi) con 20,600 HP e raggiungere la pazzesca velocità di 70 nodi (!).
DALLA VELOCITA’ AL LUSSO
Le barche successive di Staluppi, furono sicuramente delle pietre miliari per il lusso abbinato alla bellezza ed alla qualità costruttiva, tuttavia non furono più realizzate per battere record mondiali ma per conquistare lo scettro della barca più bella e più lussuosa, il loro spirito esula quindi da questa trattazione, ove si parla delle barche di Staluppi create per conquistare record di velocità, tuttavia per completezza le citiamo qui:
- Casino Royale (49,6mt x 16kn)
- Skyfall (57,91mt x 20kn)
- Diamonds are forever (61mt x 16kn)
- Spectre (realizzata in partership con Benetti) (69mt x 21kn)_
Fabrizio Rebolia
L’UOMO CHE INVENTO’ GLI SPORTYACHTS
Il marchese Filippo Theodoli acquistò il cantiere Magnum Marine da Apeco nel 1976 per 1,5 milioni di dollari e, dopo una fase iniziale in cui vennero replicati i modelli concepiti dal fondatore Don Aronow (i cosiddetti Magnum classici) si ebbe un cambio improvviso di rotta e si avviò il concetto che rese i Magnum famosi in tutto il mondo.
L’idea che ossessionava Filippo Theodoli e sua moglie Katrin era che occorreva creare un prodotto assolutamente nuovo: un superyacht (per lusso, prestazioni, dimensioni, comodità) che però fosse gestibile in totale autonomia dall’armatore, da un equipaggio ridotto o addirittura senza equipaggio!
Un mezzo nuovo, con lo charme e il prestigio di un superyacht, ma con la maneggevolezza e le prestazioni di un runabout, capace di regalare al suo fortunato possessore incredibili viaggi sul filo dei 50 nodi attraverso il Mediterraneo, verso la Sardegna, la Corsica o le altre isole o destinazioni alla moda, senza problemi di autonomia, velocità, lusso, gestione e maneggevolezza.
Per fare questo l’idea vincente fu quella di coniugare la miglior tecnica disponibile sul mercato, con il lusso più sfrenato, passando per un ingigantimento delle forme perfette dei runabout.
I PARTNER COINVOLTI NEL PROGETTO MAGNUM 63′
Per arrivare ai Magnum così come li conosciamo oggi, fondamentale fu ovviamente la carena dei Magnum di Aronow, ossia una carena Wynne che venne pantografata e ingigantita.
Oltre che all’accrescimento dimensionale, l’idea vincente fu quella di utilizzare soprattutto motori diesel marinizzati ad alte prestazioni (motori con cui Magnum Maltese 63′ vinse 2 titoli Offshore e la Miami-Nassau-Miami del 1987).
Decisivo fu poi l’incontro con i due parter tecnici che diedero le caratteristiche uniche ai Magnum:
ossia Phil Rolla, produttore delle migliori eliche al mondo e Howard Arneson, che convinse Theodoli a dotare i Magnum del sistema di trasmissione Arneson surface drive, che permetteva di sfruttare al meglio e in alta velocità le eliche Rolla a prescindere dalle condizioni del mare, dell’assetto della barca e addirittura nelle acque poco profonde delle lagune caraibiche.
Quando il Magnum 63′ Pininfarina fu presentato al pubblico nel 1983 fu uno choc: nessuno aveva avuto mai il coraggio di spingersi così a fondo nel gigantismo dei motoscafi da competizione, si era alla fine arrivati ad “una nave che sembrava un motoscafo” o a un “motoscafo grande come una nave”, a seconda delle interpretazioni.
Ma ormai la strada era tracciata e da quel giorno non si contano le imitazioni di quel capolavoro che navigano nei mari caldi di tutto il mondo, oggetto del desiderio per la clientela più esclusiva della terra: dal re Juan Carlos di Borbone, all’emiro del Bahrein, al re di Svezia, al sultano del Brunei, alla famiglia Onassis, agli Agnelli, ai Berlusconi.
Una curiosità: i Magnum sono anche tra le barche più apprezzate dai Narcos Colombiani per la loro proverbiale capacità di navigare ad alta velocità tra le onde del mare in tempesta, fendendole come un jet di linea durante una turbolenza, quando gli altri motoscafi ad alte prestazioni sono costretti a rimanere agli ormeggi.
Il PALMARES
Il Magnum 63′ vinse due titoli mondiali (1986 e 1987) e soprattutto una terribile edizione della Miami-Nassau-Miami nel 1987:
praticamente l’edizione evocativa (il Sam Griffith Trophy) della prima vera gara di offshore ma con il percorso raddoppiato rispetto ad allora.
Quella di quell’anno fu una terribile edizione, caratterizzata dalle condizioni di mare proibitive, al punto tale che il marchese Filippo Theodoli (all’età di 67 anni) e il suo numeroso equipaggio furono gli unici (…) ad arrivare al traguardo di Miami con Magnum General’s Titan dopo un’estenuante cavalcata di 7 ore e 28′.
EPILOGO
Filippo Theodoli ci ha lasciati nel 1990, da allora la gestione del cantiere è passata nelle mani di sua moglie Katrin che ha infuso infinite energie in quella meravigliosa avventura, continuando ancor oggi a regalarci quelle che per molti sono le più belle barche del mondo_
Fabrizio Rebolia
PREMESSA
Quando l’Offshore dagli Stati Uniti approdò negli anni ’60 in Inghilterra e poi in Italia, i luoghi del nostro Paese dove trovò la sua culla naturale furono dapprima come abbiamo visto le coste del Lazio, poi il Golfo di Napoli, la Versilia, e infine le sponde del Lago di Como.
Quella che ci accingiamo a raccontare è la storia di un gruppo incredibile di piloti ed ingegneri che si seppero rapidamente trasformare da outsiders a “quelli da battere”, dominando ininterrottamente la scena della motonautica europea e mondiale negli ultimi vent’anni del secolo scorso, prendendosi il lusso più e più volte di battere gli inventori dell’Offshore, ossia gli americani, direttamente in casa loro, umiliandoli e stracciando a ripetizione record ritenuti semplicemente intoccabili.
GAGLIOTTA
Come abbiamo visto nelle puntate precedenti la prima barca italiana che sbalordì i piloti americani portava il nome napoletano “A’ Speranziella”, anche se lo scafo fu costruito ad Anzio da Navaltecnica su disegni di Levi.
Il primo cantiere napoletano che si cimentò nelle competizioni motonautiche fu Gagliotta con “Budda”, uno scafo di appena 6,80mt spinto da un motore Volvo Penta da 280CV (si pensi che lo scafo di Don Aronow disponeva di 500CV).
Da allora inizia a Napoli una storia ininterrotta di amore per le competizioni motonautiche, come testimoniano ancor oggi i cantieri Gagliotta, Tony Giugliano e Baia.
CUV
La passione dei costruttori viareggini per la motonautica d’altura è storia di lunga data: naturale che la gara più fascinosa e dura del Mediterraneo prendesse il via proprio da qui: la Viareggio-Bastia-Viareggio, una durissima competizione in mare aperto caratterizzata spesso da mare mosso e onde lunghe.
Fu proprio un pool di costruttori viareggini che nel ’70 si consorziò per dar vita a un cantiere che divenne leggenda: CUV (Cantieri Uniti Viareggio).
La CUV fu fondata nel 1968 da Carlo “Carlino“ Bazzichi con i soci Oreste e Umberto Bergamin. Dapprima deputato alla lavorazione delle leghe leggere, poi alla costruzione della sovrastruttura delle imbarcazioni, a fine anni ’70 il cantiere passa alla creazione dei primi monocarena in alluminio da corsa per Alitalia, da allora una storia di trionfi, titoli mondiali e di piloti leggendari, qualche nome: Francesco Cosentino, Renato Della Valle, Bruno Abbate, Angelo Spelta e Giovanna Repossi per arrivare ad Adriano Panatta
FABIO BUZZI: IL CACCIATORE DI RECORD
Parlare di Fabio Buzzi e della sua FB Design di Annone Brianza senza cadere nell’iperbole è difficile.
Per cominciare possiamo dire che “Cesa” fu la barca più vincente al mondo, vincendo nella sua carriera due titoli mondiali di Classe 1, un Campionato Apba Usa, la Miami-Nassau e per ben due volte la Cowes-Torquay..
Possiamo poi aggiungere che Fabio Buzzi si prese il lusso di andare a stracciare gli americani in casa loro, polverizzando il record sulla New York – Nassau con uno scafo motorizzato Iveco, e cioè FIAT, e che solo l’eterno complesso di inferiorità italiano fece sì che questo record non venisse urlato ai 4 venti dalla FIAT ma sommessamente ascritto a un motore FPT, ossia Fiat Power Train.
Il 12 luglio 2016 Fabio Buzzi arrivò poi a polverizzare simultaneamente, non con uno ma con due scafi insieme, il record della Montecarlo – Venezia pilotandone personalmente uno all’età di 73 anni!
Purtroppo, nel battere se’ stesso, trovò infine la morte la sera del 17 settembre 2019, quando la sua imbarcazione si schiantò contro la diga di San Nicoletto, appena fuori dalla bocca di porto tra Punta Sabbioni e il Lido – aveva appena battuto il record sulla rotta Monte Carlo – Venezia.
Con Buzzi morirono due compagni di equipaggio (un americano e Luca Nicolini) mentre un quarto – Mario Invernizzi – riuscì a salvarsi, miracolosamente con poche ferite
Fabrizio Rebolia